La bufera di Todo Modo è passata da un paio d’anni ormai. Alcune
cose sono cambiate. In questa intervista del ’78 (F. Laudadio, Un regista si racconta, “l’Unità”, 3
luglio 1978), di cui pubblichiamo alcuni
stralci, Elio Petri viene intervistato in occasione del primo passaggio
televisivo de Le mani sporche. È un’occasione
per parlare proprio di televisione, di recitazione, di cinema a basso costo. È impressionante,
peraltro, vedere come Petri, con la sua sensibilità di intellettuale, avesse intuito
in anticipo il riflusso individualista della società, che sarebbe avvenuto
negli anni Ottanta. Goodbye, Elio.
“Quelli che fanno
cinema credendoci, perché lo amano, devono pagare di persona.”
Cosa ne pensi della televisione?
Non credo che la TV vada fatta come la facciamo io e altri: essa va
completamente reinventata. Non si può usare la TV come se fosse il surrogato di
tutto l’esistente, che è quel che oggi avviene e che mi pare aberrante, poiché simboleggia
il ritirarsi dell’individuo di fronte ai fatti collettivi. Il problema è quello
di capire la funzione e la destinazione della televisione nella vita moderna;
la necessità è quella di comunicare le cose mentre avvengono, e non, come
succede oggi, utilizzando il mezzo nel modo più pigro, ciò che fa sì che la
gente non viva più in prima persona certi avvenimenti, tanto ha la TV che
surroga tutto: dall’abc per i bambini, allo spettacolo, alla messa al teatro,
al cinema, e questo è un regresso, non un progresso.
Questo vuol dire che ti senti
tentato dalla possibilità di un impiego diverso del mezzo televisivo?
No, io continuerò a fare del cinema. La TV è una cosa, il cinema un’altra.
(…)
Qual è il tuo rapporto con gli
attori?
Io amo molto gli attori. Penso che l’attore sia fondamentale per uno
spettacolo. Ho sempre creduto in una recitazione forte, non sommessa, o
intimista, come spesso è quella degli attori americani che oggi vanno di moda,
con qualche eccezione come Robert De Niro e qualcun altro. Una moda che è solo
un fatto provinciale. L’attore è un essere umano, antico quanto il teatro, e
quindi quanto la vita. Un essere umano nudo che deve rivestire gli abiti degli
altri e gestire e parlare come gli altri, come quelli che lo guardano e lo
ascoltano, perché si è trasformato in uno di loro, in tutti loro. All’attore
spettano scelte come quelle che spettano al regista, ed è assurdo contrapporre
il regista all’attore, poiché il primo non è quella specie di demiurgo che
ancora credono di essere certi vecchi (mentalmente) registi teatrali che oggi
vanno per la maggiore.
Tu non sei solo un regista, ma
anche un autore, scrivi cioè i tuoi film. Come nasce un tuo film?
Ogni film ha una sua propria storia particolare, diversa fra l’uno e l’altro.
E questa storia va legata al tempo in cui la pensi, alla realtà e alla cronaca
che ti circonda. Quando ho pensato che fosse giusto cominciare a fare film
politici, mi sono guardato intorno senza forzare i termini del discorso, ma
sicuramente cercando di leggere fra le righe di quel che intorno a me avveniva.
Così come, guardandomi intorno oggi, ritengo che si debba tornare a raccontare
le storie delle persone, degli individui. Ma non certo in chiave intimistica,
bensì assumendo le storie personali come spie di una situazione più generale di
disagio, di ricerca di un’identità sempre più in crisi nella società in cui
viviamo. Il primo dovere di un regista è quello di conoscere il principio di
realtà, le condizioni della possibilità, della realizzabilità, di una storia ,
come di un film. Anche dal punto di vista, diciamo così, strutturale:
allacciare un legame con un certo produttore, verificare la realizzabilità di
un progetto, tenere duro su certi punti ed ingaggiare una vera e propria lotta,
che non cessa mai, dalla progettazione fino all’uscita e dopo (…).
Che progetti hai per il prossimo
futuro?
Due o tre idee su cui sto lavorando. Ma soprattutto, da qualche tempo,
sono convinto che l’unica strada percorribile dal cinema italiano sia quella
della produzione a basso costo. Anche se non condivido appieno la linea dell’austerità,
che ritengo un po’ demagogica, credo tuttavia che lo spettacolo, proprio perché
può apparire qualcosa di superfluo, deve in qualche modo autolimitarsi e pagare
per sopravvivere. Quelli che fanno il cinema credendoci, perché lo amano,
devono pagare di persona. Non c’è altra via e questo è il momento.
Nessun commento:
Posta un commento